Nell’autunno del ’92 (da allora definito il “mercoledì nero”) l’Italia fu investita dalla più grave crisi finanziaria del dopoguerra. Dai fondi americani si evidenziò un’iniziativa speculativa di grande portata che aveva come obiettivo la lira italiana e la sterlina inglese.
Le conseguenze, soprattutto per il nostro Paese, furono devastanti: una cospicua parte delle riserve monetarie furono utilizzate per difendere il cambio, i titoli di Stato furono sottoposti a gravi tensioni, i valori di borsa crollarono e l’Italia fu costretta ad uscire (temporaneamente) dallo SME e a varare per il ’93 una manovra finanziaria di “lacrime e sangue” e a procedere alla svalutazione della lira.
Le ragioni delle debolezze del “sistema Italia” erano note e ancora per gran parte oggi persistono; tuttavia, la “Politica” intese individuare la maggiore responsabilità nello sfavorevole rapporto tra spese previdenziali e PIL.
Si avviò, quindi, la stagione della riforma delle pensioni che, con provvedimenti successivi dalla legge Amato del 92 a quella Dini del ’95, stravolsero completamente il sistema previdenziale italiano.
Si tracciò una linea profonda tra il trattamento sin ad allora previsto e quello che sarebbe stato riservato a chi avrebbe iniziato a lavorare da quel momento: venne meno il principio di solidarietà e garanzie che dovrebbero sempre caratterizzare un sistema previdenziale e le rendite pensionistiche attese subirono un taglio medio del 30%.
Fu quello il motivo e l’inizio del conflitto generazionale nel nostro Paese!
Una questione ulteriormente acuita per i Dipendenti della Banca che sino a quel momento avevano fruito di un sistema di previdenza integrativa di particolare pregio e certosinamente costruito nel corso dei decenni mentre i citati provvedimenti di riforma ne vietavano l’applicazione a chi iniziava a lavorare da quel momento, prevedendo solo la possibilità di ricorrere alla previdenza complementare il cui funzionamento era definito dalla legge.
Il Sindacato aveva sempre avuto come valore (di civiltà) quello di preoccuparsi anche del momento in cui le Colleghe e i Colleghi avrebbero cessato di lavorare assicurando loro un dignitoso reddito a disposizioni per una stagione, a volte difficile, della loro vita.
La FALBI in quel momento assunse l’impegno “morale”, che ancora oggi conferma, di costruire un sistema previdenziale aggiuntivo che sanasse la grave discriminazione che la legge aveva creato tra le diverse generazioni.
Eravamo consapevoli che, come avvenuto per la previdenza integrativa nel periodo passato, sarebbe stato necessario un periodo lungo di costruzione del sistema
Avviammo, quindi, il negoziato con la Banca e nel 1998 firmammo l’accordo per la costituzione del Fondo di Previdenza Complementare per i Dipendenti della Banca d’Italia; non fu facile anche per la diffidenza (immeritata, perché i Sindacati aziendali non erano corresponsabili delle scelte operate dal Parlamento) che i Colleghi più giovani nutrivano nei confronti dei Sindacati “storici”.
Il Fondo si avviò con una contribuzione a carico del Datore di Lavoro del 2%, che era la misura media (e che tale è rimasta) adottata da tutti gli altri settori.
Era evidente che tale misura non sarebbe stata nemmeno lontanamente utile a colmare il divario esistente tra i due sistemi che convivevano in Banca, per cui ci ponemmo l’obiettivo di un progressivo adeguamento di quella misura.
A partire dal 2014, quindi, a fronte di una contribuzione da parte del Lavoratore superiore all’1%, la Banca conferisce a Fondo pensione una percentuale pari al 7.5%.
Riteniamo fondato affermare che, la contribuzione del datore di lavoro con quella a carico del Lavoratore, dell’accantonamento del TFR e dei rendimenti assicurati dalla gestione dei diversi comparti del Fondo, realizzano una sostanziale equiparazione delle rendite attese con quelle che venivano assicurate dall’RTQ.
Residuava un ulteriore e significativo divario tra i due sistemi aziendali: la liquidazione, che nel caso degli assunti dal 28 aprile 1993 doveva essere destinata ad alimentare il Fondo.
Una questione estremamente complicata in quanto era evidente che non si potesse duplicare il trattamento di fine lavoro, ma che doveva essere necessariamente superata se si voleva realizzare l’equiparazione dei sistemi.
Il 16 giugno 2017 fu sottoscritto un accordo (dopo una complessa trattativa che vide il movimento sindacale dividersi e alcuni sindacati, che non firmarono l’accordo, se non per adesione il successivo 3 dicembre 2020, schierarsi all’opposizione) che, in un’ottica di equità generazionale, introduceva una prestazione una tantum (definita lump sum) da liquidare all’atto della cessazione.
Quell’accordo ne quantificava l’importo secondo la formula che segue: stipendio annuo x anni di anzianità x un coefficiente dello 0.03
Tale formula garantisce, con 30/ 40 anni di servizio, un importo pari al 90/120% di un’annualità, un importo ancora lontano considerato che l’IFR, con pari anzianità, ammonta a circa tre annualità.
Era evidente, che come avvenuto per la contribuzione a carico Banca, all’introduzione dell’istituto dovevano seguire successivi e progressivi adeguamenti della formula di calcolo.
Per tali motivazioni la lump sum riveste un ruolo fondamentale nel processo di equiparazione che ci eravamo sin da subito proposti.
Per tutto quanto sin qui detto abbiamo ritenuto che il tempo trascorso dall’introduzione, il positivo andamento finanziario e degli accantonamenti consentano oggi di procedere ad un adeguamento della misura della lump sum.
Queste le motivazioni per cui, in sede di raffreddamento del conflitto per IPCA ed Efficienza, la FALBI ha chiesto, E OTTENUTO, che l’accordo contenesse un impegno da parte della Banca ad avviare un negoziato, nel corso del 2025, con l’obiettivo di rivedere in incremento il coefficiente di calcolo della prestazione da erogare a fine servizio.
Si tratta dell’adempimento di un dovere da parte del Sindacato che qualifica un accordo altrimenti di modesta portata.
Si avvierà un negoziato rispetto al quale, ci auguriamo, le Colleghe e i Colleghi non vorranno sottrarsi dal partecipare non facendo mancare il proprio contributo e appoggio alla rivendicazione, che è sempre un valore aggiunto al positivo svolgersi del confronto con la Banca.